Le Vette Dell'Abisso di Roberto Berenzin #Presentazione #Intervista

Cari Riflessi, oggi vi presento Le Vette Dell'Abisso di Roberto Berenzin, in collaborazione con la casa editrice Bibliotheka.
Buona Lettura!
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Formato cartaceo: € 14,00
(disponibile anche in versione eBook)
Pagine: 344
Editore: Bibliotheka
Autore: Roberto Berenzin

Dopo Il freddo sul Lago Erie e Canto di luna, Roberto Berenzin propone Le vette dell’abisso, una terrificante antologia di racconti, molti dei quali scritti precedentemente alla sua prima pubblicazione.
Un’opera che vibra di un’energia inusuale, caratterizzandosi come un lavoro di ampio respiro, che oscilla tra i lampi di uno scrittore visionario e la filosofia degna dei predecessori che hanno tracciato il solco in cui Berenzin si muove - Dick, King, Poe, Connelly.
Una serie di incubi in cui personaggi catapultati in situazioni terribili devono fare i conti con la paura, l'orrore, la follia.
Il thriller si fonde alla fantascienza in L’ultimo Emendamento e Foglie cadute nel vento acido; con l’horror di Uisge Beatha e Sühneburg; con il grottesco e la commedia di Ritratto di famiglia, 1995; con i manifesti antinichilisti de La pestilenza e le campane e Il Paese senza secoli. E intanto deliranti incubi al cardiopalma, come quelli di Eleanor, o della mente, come in Nivosa, e agghiaccianti visioni come Il sogno dell’eresiarca dipingono l'atmosfera apparentemente senza via d’uscita - le vette dell’abisso di cui al titolo - in cui Berenzin intrappola i propri personaggi.

Dopo i toni algidi del thriller cospirativo (Il freddo sul Lago Erie) e le oscure tinte dell’horror (Canto di luna) Roberto Berenzin con Le vette dell’abisso ci immerge in quindici storie, terrificanti e inquietanti, che ci portano a contatto con paure ancestrali, enigmi sanguinosi, porte che sia aprono su un buio totale e avviluppante. Un’antologia che strizzando l’occhio ai numi tutelari della paura su carta (Dick, Lovecraft, Poe, King, Faletti) e rifacendosi alla cultura cyberpunk e pop ci regala un caleidoscopio di generi e stili narrativi che lascia stupefatti. Abbiamo chiesto all’autore di rispondere alle nostre domande.
La maggior parte dei racconti che compongono Le vette dell’abisso sono stati scritti anni fa, durante la tua “prima giovinezza”. A quale di essi sei più affezionato e perché?
Se davvero dovessi scegliere il racconto migliore contenuto in quest’antologia, sia in base alla qualità di ciò che sono riuscito a mettere su carta che pensando alle motivazioni che mi hanno spinto a scriverlo, direi Foglie cadute nel vento acido. È la storia che troverei più eccitante se fossi un lettore, ed emozionalmente soddisfacente come uomo e come autore. È un thriller con una forte componente fantascientifica, qualcuno dice di ispirazione cyberpunk, e mi ha dato modo di fondere il poliziesco che più amo scrivere con la mia formazione tecnico-scientifica. È una storia che deve molto a molte situazioni, non ultimi Ridley Scott e Blade Runner: spero di essere riuscito a trasmettere un decimo dell’atmosfera di quella Los Angeles sporca e piovosa, anche se devo ammettere che non avevo la colonna sonora di Vangelis a disposizione...
Però Nivosa vinse il primo premio in un concorso nazionale nel 2007, e lascio immaginare quali sensazioni un evento simile può regalare ad un autore, a parte lasciargli comprendere che quella di scrivere è la sua strada.
Nei campi dei Nephilim, poi, mi dà i brividi ogni volta che ci penso, forse per le tematiche, forse per la musica dei Fields of the Nephilim, il più grande gruppo musicale partorito dall’Inghilterra, che mi ispirava mentre scrivevo, e che ho omaggiati con questo titolo.
Amo anche Eleanor.

La brevità e l’incisività di alcuni racconti mi ha ricordato i mitici fumetti della EC Comics (The Vault of Horror; Tales From the Crypt) che, negli anni ‘50/’60 deliziarono gli appassionati di storie horror. Cosa ne pensi in proposito?
Per essere del tutto onesto? Non lo so. Non sono un cultore dei fumetti, e non ne conosco moltissimi.
Credo che le tragiche visioni di cui parli prendano consciamente origine da storie come I sogni nella casa stregata o Attraverso i cancelli della chiave d’argento di H.P. Lovecraft, o il racconto breve Jerusalem’s Lot di Stephen King, roba da far accapponare la pelle a chi legge di questa roba da trent’anni. E poi c’è la componente inconscia: ognuno di noi matura un bagaglio di risposte a domande che non ha mai saputo porsi, per dirla come Fox Mulder, attraverso le esperienze, le paure, le musiche, i quadri, gli studi, tutto ciò che assorbiamo 24 ore al giorno senza accorgercene del tutto. Ogni nostra risposta - ogni mia storia, in questo caso - è in buona parte frutto di questo bagaglio che neppure io conosco a fondo.

Le atmosfere del racconto Sühneburg hanno molti punti in comune con il cosiddetto “torture porn”, quella particolare branca del cinema horror che ci ha dato pellicole efferate come i vari Hostel o Saw. Pensi che il paragone sia azzardato?
Sicuramente il parallelo ti è venuto spontaneo, ma la mia impressione è che certe storie non mi sono state ispirate da nulla: ce le portiamo in realtà dentro quasi inconsapevolmente, le troviamo negli angoli delle strade, nel buio della notte, se siamo quelle persone in grado di leggerle e percepirle con quella sensibilità, quella parte di noi che in molte persone è invece meno sviluppata. Di questo filone fanno parte anche storie quali Il sogno dell’eresiarca e Uisge Beatha, oltre ad altre che non ho ancora pubblicato. Più che “torture porn” le definirei, come fece un mio vecchio professore che mi lesse saltando letteralmente dalla sedia, «indagini psicomortuarie».

Passiamo al racconto Nel sangue freddo. Mi sembra evidente che la storia non possa non ricordare i massacri che continuamente funestano le high school americane, in primis Columbine. Che puoi dirci in proposito?
Sì, si tratta di un problema attuale che necessita di una soluzione, che personalmente non riesco neppure a intravedere. Avevo terminato questa storia poco prima del massacro del Virginia Tech, nel 2007, e restai piuttosto sconvolto dalle “analogie anterograde” che avevo finito per inserire in quelle pagine. Ma d’altra parte si tratta di fenomeni che hanno radici nella parte più profonda della psiche umana, della sua parte più “oscura” e insondabile, pertanto si ripetono di volta in volta con schemi similari. Se riesci a scorgere qualche frammento dei demoni che albergano nella mente degli autori di atti così efferati, riesci in parte a capirli tutti. Parlando del mio racconto in particolare, credo che l’ispirazione mi sia giunta una sera, guardando il film Elephant di Gus Van Sant; ma d’altra parte questo libro è una geografia dell’anima, che dedico ai protagonisti di quella mia giovinezza, i miei compagni di scuola: un po’ scherzando, un po’ seriamente, questa storia nacque tra le quattro mura del mio liceo, lì a seicento metri dal mare.

Un’ultima domanda: preferisci cimentarti con un romanzo complesso come Il freddo sul Lago Erie oppure sei più orientato con la secchezza delle short stories?
Rispondo prendendola larga. Il rischio è che dopo quest’intervista io venga etichettato come autore di storie dell’orrore, cosa che non sono assolutamente. È vero, certi elementi ricorrono qui e sono il fulcro del mio precedente romanzo, Canto di luna. Ma io mi ritengo un autore di thriller, cresciuto come sono con i polizieschi, e con telefilm come Hunter, X-files e Jarod il Camaleonte. Racconti come Foglie cadute in un vento acido, Eleanor, L’ultimo Emendamento sono quelli che preferisco in quanto, nonostante siano relativamente brevi, sono i più articolati e i più orientati a una storia complessa come un thriller. La mia strada è quella. La trama deve necessariamente dipanarsi lungo i binari di una storia che accompagni il lettore per qualche giorno e l’autore per qualche mese. Quindi il romanzo di media lunghezza, e il thriller in particolare, sono ciò che mi riesce meglio. Posso scrivere qua e là delle storie brevi, se ci riesco trasformerò Canto di luna in una serie di due o tre volumi: ma io resto un autore di storie di polizia, appostamenti, complotti e adrenalina, che permettono di dare fondo a tutta la mia volontà di costruire storie lunghe, dense, complicate, serrate, che avrei sognato di vivere in prima persona.
Il racconto breve si presta a visioni drammatiche, intuizioni oniriche, asserzioni filosofiche forti - si vedano a tale proposito anche La pestilenza e le campane o Il Paese senza secoli - ma un libro di 350 pagine è probabilmente la strada migliore per costruire una storia che si ricordi.
Intervista a cura della redazione di Bibliotheka

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